28.03.2019.

Fine dei giochi

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C’è qualcuno.
Qui dentro c’è qualcuno, adesso ne ho l’assoluta certezza. Inizialmente pensavo si trattasse di suggestione, di uno scherzo della mia immaginazione che mi faceva vedere cose che non c’erano. Poi ho sentito quella voce, e allora ho capito.
Io non sono solo.
Messa così potrebbe sembrare quasi un paradosso, dopotutto sono pur sempre sigillato in una cella a Secondigliano, eppure ciò che mi sta succedendo non è affatto compatibile con le regole imposte dal 41bis. Le chiamano celle di isolamento, ma visti gli ultimi accadimenti qui dentro mi pare proprio che di isolamento ce ne sia ben poco. E dire che negli ultimi anni si è fatto un gran parlare di riforma delle carceri italiane! Vorrei che ora fossero qui dentro quei politici che si danno tanto da fare per peggiorare l’esistenza di noi detenuti, vorrei che fossero qui dentro a sentire quella voce… a vedere quegli occhi.
Sì, gli occhi. In principio, a minare oltremodo il mio esilio punitivo, c’erano solo dei mormorii appena percettibili, poi sono comparsi due puntini luminosi, due schegge di ghiaccio fiorite all’improvviso come gigli in mezzo a un campo di tenebra. Da quell’istante ho cominciato ad avere paura…

Tanta gente è impazzita in galera, uomini e donne che non tolleravano il regime di detenzione e che hanno lasciato il loro cervello in balia dei fantasmi che loro stessi avevano evocato. Quelle persone sono state inghiottite dalla follia, fagocitate dalle zanne dei loro incubi, sconvolte dalla paranoia e dalla prospettiva di una libertà negata. Per me è diverso.
Io non sono pazzo, il mio cervello funziona ancora bene, almeno quel tanto che mi basta a discernere ciò che è vero da ciò che vero non è, o non dovrebbe essere. E il mio cervello, in questo momento, mi dice che c’è una presenza acquattata in un angolo buio della mia cella.

Se continua così dubito di poter resistere fino alla data del processo. In fondo mancano soltanto poche settimane, ma sono abbastanza certo che la mia capacità di sopportare tutto questo abbia le ore contate. Un po’ come me…
Prima o poi mi troveranno stecchito per terra, con la schiuma alla bocca e il cranio fracassato contro le sbarre. Non appena ho scoperto la presenza che condivide con me questi quattrometriperquattro, infatti, ho compreso che la mia vita è arrivata al capolinea. Ultima fermata per l’inferno, fine del viaggio, fine dei giochi.
Mi chiedo solo quando accadrà.

L’attesa è forse la cosa più difficile da tollerare, perfino più insopportabile dell’idea stessa di tirare le cuoia, che tanto a quella ho avuto modo di farci il callo per aver vissuto in mezzo al tiro incrociato dei sicari più spietati. Ora darei l’anima per guidare una di quelle pallottole in mezzo alla mia fronte, tutto pur di evitare l’attesa.
D’altronde una vita sospesa nel dubbio rende accettabile anche l’abbraccio della morte, e chissà che non sia proprio lei ad attendermi nell’ombra. Quasi me l’immagino mentre lucida la sua falce a mezzaluna, e sono quasi sicuro che siano suoi gli occhi che bucano il drappo nero che mi avvolge. Sono quasi sicuro che a Secondigliano la morte sia di casa.
E poi il buio. Qui dentro il buio sembra avere una consistenza corporea, una densità insolita per un mero dato ottico, e c’è un angolo dove, se possibile, il buio è un po’ più buio, un angolo che fa parte di questo posto ma che è anche altrove. Forse ovunque.
Ogni tanto un fascio di luce, finito per sbaglio sulla mia rotta, filtra appena tra le grate e porta un bagliore pallido nella cella, ma quell’angolo, quella porzione di inferno scelta a dimora temporanea dalla nera signora, resta immerso nel buio, come se la luce vi scivolasse sopra senza lasciare traccia. E allora mi ritrovo con le mani sul volto a fare da scudo perché gli occhi non vedano e, sebbene sappia che l’oscurità che mi inghiotte sia più che sufficiente per cancellare ogni cosa, continuo a serrare le palpebre e sprofondo la testa tra le ginocchia, proprio come facevo da bambino, quando avevo paura dei mostri di sotto il letto.

A volte urlo, e urlo per ore intere fino a farmi sanguinare la gola, ma nonostante questo, nonostante la mia voce disperata faccia tremare tutto, compresa la misteriosa presenza che aleggia qui dentro, nessuno accorre a vedere cosa stia succedendo, nemmeno un secondino con la voglia di ammazzare un po’ la noia adoperando il suo fidato manganello. Che sia questo l’isolamento di cui parlano i giudici e i direttori delle carceri?
Ora che ci penso non passano più neppure a lasciarmi i pasti, e sono certo che se potessi guardare fuori non vedrei più l’agente incaricato di piantonare la mia cella. Devono aver preso alla lettera le disposizioni sui regimi di detenzione di massima sicurezza, oppure si sono semplicemente dimenticati di me, che in fondo c’è già il demonio per prendersi cura degli assassini recidivi. Guardo nel solito angolo di tenebra e mi convinco che sia davvero così, che ci sia qualcuno che veglia su di me. Qualcuno che di certo non vuole il mio bene, o quello della mia anima.

Io non sono solo.

Un altro di quei fasci di luce smarriti si perde nella mia gabbia di cemento e acciaio. Dura meno di un respiro, meno di un battito di ciglia, ma mi basta per distinguere un’ombra stagliarsi contro i mattoni lerci di una parete, una silhouette familiare, come familiare è stata per tanti anni la mia immagine riflessa allo specchio. Su quel muro, prima che l’oscurità riporti una parvenza di ordine nel caos, vedo me stesso penzolare dal soffitto appeso per il collo a una corda. La morte deve aver iniziato a giocare le sue ultime carte.
Spalanco la bocca cercando di imitare la posa del celebre dipinto di Munch, ma la voce non riesce a seguire l’istinto e muore prima di arrivare alla gola. Resto immobile, impietrito come davanti allo sguardo di Medusa, con la gola che brucia e il sapore ferroso del sangue sulla lingua. 
Impotente. Per la prima volta nella mia vita mi sento impotente, e credo che le cose non migliorerebbero se impugnassi la mia Beretta 7,65. Gli spettri non temono i proiettili, specie se a sparare è un carcerato sull’orlo di una sacrosanta crisi di nervi. Non si può uccidere ciò che è già morto, non con una semiautomatica perlomeno.

Ho paura, ho paura e sono stanco. Incredibilmente stanco, come quando da bambino tornavo a casa dopo aver giocato per tutta la giornata, e neanche la cioccolata calda di mia madre bastava a rimandare l’appuntamento con il letto. E con i sogni.
Adesso, come allora, sono stanco e ho sonno. Le palpebre pesano sugli occhi come saracinesche in un giorno di festa, e tutto il mondo sudicio che sono riusciti a ficcare in questa scatola per sardine scivola via veloce, quasi fosse acqua sporca che sparisce nello scarico di un lavandino.  

«Totò?»
«Uffa! Cosa vuoi?!»
«Totò, sveglia… è ora.»
«Lasciami dormire ancora un po’. Sono troppo stanco!»
«Non fare storie, Totò. Se non ti alzi subito farai tardi a scuola.»
«Ma io ho ancora sonno!»
«Dammi retta se non vuoi passare guai. Lo sai cosa succede ai bambini che fanno i capricci…»
«No, l’uomo nero no! Mi preparo subito! Faccio il bravo bambino… ma tu non mandarmi dall’uomo nero…»

Mi sveglio di soprassalto e per poco non sbatto la testa contro la tazza del water. Devo ancora abituarmi alla geografia di questo universo tascabile, ma ormai temo che non avrò il tempo di farlo. O di fare qualunque altra cosa.
I tranelli di Morfeo sono ancora troppo vividi perché possa fissare la realtà con sufficiente disincanto, e poi quei due occhi piazzati nel mezzo del nulla mi cercano con troppa insistenza per far finta di niente. Ora mi pare che siano addirittura più vicini di quanto ricordassi.
Mi stropiccio le palpebre con le mani, come fanno i bambini davanti a qualcosa che non comprendono, ma questa volta la vista serve a ben poco, perché l’inferno non vuole ancora farsi vedere. Adesso l’inferno ha voglia di parlare…

«Totò…» Una voce che è pure un rantolo rimbomba nella cella.
«Chi…? Chi sei?! Fatti vedere!»
«È veramente questo che vuoi?» continua la voce sempre più vicina. «Davvero vuoi vedermi?»
«Io… Io non…»
«Hai fatto un bel po’ di casino negli ultimi tempi.»
«Ho sbagliato.» La mia voce trema, e mi sembra di essere tornato ad essere il bambino che bagnava il letto per la paura dei temporali. «Io non volevo…»
«Eppure l’hai fatto.»
«Ti prego, perdonami!»
«Non posso, Totò… Conosci le regole. Tu sai cosa succede ai bambini cattivi…»

Mi tappo le orecchie per non sentire, e intanto mi pare che l’aria si stia comprimendo attorno a me. Lo spazio è vivo, i muri vibrano e sono viscidi e appiccicosi come se fossero cosparsi di bava. L’inferno ha una bocca, e dei denti, e adesso ha fame. Ho la sensazione di essere l’unica pietanza sul menù, ma al momento c’è qualcosa che mi preoccupa più degli appetiti dell’oltretomba. L’uomo nero è seduto accanto a me, ed è venuto a prendermi.
Un boato annuncia quello che potrebbe essere il terremoto del secolo. Io punto gli occhi in alto, e dove prima c’era il soffitto macchiato di un carcere napoletano ora vedo una selva di zanne affilate che calano su di me in una morsa impietosa. L’immagine delle torture medievali mi attraversa la mente per un attimo, e mi metto a pensare alle punte aguzze delle “vergini di ferro” che strappavano la vita agli eretici con un abbraccio mortale. Le forze mi stanno abbandonando, sono sul punto di svenire, e mi sento sempre più una di quelle vittime innocenti della Santa Inquisizione. Con la sola differenza che io non sono innocente, e che non ho mai avuto a che fare con la stregoneria…

«L’uomo nero…»
«Mamma? Dove sei, mamma?! Tirami fuori di qui…»
«Smetti di strillare, Totò, o chiamo l’uomo nero!»
«È già qui… l’uomo nero è già qui! Ti prego, non mi lasciare… non mi lasciare da solo con lui!»
«Piantala! Comportati bene, altrimenti sarà peggio per te. I bravi bambini non fanno i capricci!»
«Io non faccio i capricci. Non li farò mai più, però tu prometti che non vai via… prometti che rimarrai con me!»
«Non posso, Totò. Questo posto è troppo piccolo…»
«Ma io ho bisogno di te… Questi denti mi stritolando! Tu devi restare con me…»
«Lasciami, Totò, lasciami… lasciami…»

Le mie mani stringono, stringono forte come per spezzare un fascio di spaghetti. Anche il rumore è lo stesso, mentre le dita si serrano sempre più, ma invece di una manciata di pasta mi scopro a stringere il collo di una donna. Soltanto adesso ritrovo il sapore delle lacrime, e quello dei rimorsi.
Le pareti della cella sono sempre più vicine, le zanne sul soffitto ormai mi grattano quasi la testa, e se non fosse per questo rumore sordo che riecheggia tutt’intorno accetterei più volentieri la mia dolorosa redenzione. Forse sono davvero vittima di una tortura medievale.

Tump! Tump! Tump!

Il martelletto del giudice cerca di riportare ordine in un’aula affollata del tribunale di Napoli. Io sono l’unico ad attendere la sentenza in silenzio. E sono anche l’unico imputato.

Tump! Tump! Tump!

«In nome del popolo italiano, questo tribunale condanna l’imputato alla pena dell’ergastolo…»
La gente grida, sembra di stare al San Paolo il giorno dell’ultima di campionato. Io sento le zanne che scavano nella mia testa, e nel frattempo mi sforzo di ascoltare il giudice che termina di enunciare la sentenza. La mamma è seduta in un banco in prima fila, ha il collo spezzato e le pupille bianche, e non smette di agitare per aria quel suo dito accusatorio con cui era solita accompagnare tutte le sue punizioni.

«Il signor Totò ha fatto i capricci!» chiosa il giudice prima di lasciare l’aula.
Io provo a dire qualcosa, ma un’ombra mi strattona alle spalle e mi trascina via lungo un corridoio che si fa sempre più lungo, sempre più buio.
La voce della mamma, ora lontana come lontano è il giorno in cui la seppellii al cimitero di Poggiroreale, si confonde con l’eco delle martellate del giudice, che rimbombano ancora nonostante non ci sia più nessuno intorno a me. Nessuno ad eccezione della presenza nell’angolo buio della mia cella quattrometriperquattro.

«Sei pronto, Totò?» Adesso l’uomo nero mi è talmente vicino che posso sentirne l’alito fetido.
«Pronto a fare cosa?» riesco a ribattere con un filo di voce.
«A scontare la pena…»
«Io sto già scontando la pena!» cerco di spiegare, mentre trattengo a stento le pareti che iniziano a stritolarmi. «Io sto scontando l’ergastolo in una cella di isolamento del carcere di Secondigliano!»

Vengo strattonato nuovamente da qualcosa che non riesco a vedere, ma questa volta sono sospinto in avanti, verso l’angolo buio, e verso quel demone che si prepara ad accogliermi nel suo ventre immondo.
Una falce a mezzaluna cala sulle mie gambe spezzandole come fossero un fascio di spaghetti. Anche il rumore e lo stesso. Vorrei urlare, ma riesco solo a sputare sangue e qualche monosillabo senza senso, mentre con le mani provo a resistere alla forza che mi trascina inesorabilmente verso le porte dell’oltretomba.
Scivolo, perché ormai è vano ogni tentativo di evitare di sprofondare in questo budello interminabile, e scivolando mi sembra di riuscire a controllare sempre meno il mio corpo, come se fossi nell’intestino di un gigante. Come se fossi stato mangiato vivo…

«…E invece sei morto…» Una voce bisbiglia nel buio proprio accanto ai miei piedi.

Provo a muovermi, ma le pareti della cella si sono chiuse su di me e ora mi stringono rendendo difficile perfino respirare. Il buio si è fatto ancora più opprimente e un forte odore di legno marcescente e di terra bagnata lascia pochi dubbi circa la tipologia del posto in cui mi trovo.
Ultima fermata per l’inferno, fine del viaggio, fine dei giochi.

«Sono vivo!» urlo grattando con le unghie contro le pareti della bara. «Io sono ancora vivo!»
 
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