Biografia semiseria di un tipo che non riesce a smettere di scrivere
In mezzo c’è tutta la mia vita… e alcuni brandelli della vita di qualcun altro.
Da che ho memoria, io che sono notoriamente uno smemorato, ho sempre avuto una storia da raccontare, con i disegni, prima, con le parole, dopo.
C’è stato anche il tempo della musica, un tempo che non saprei dire quando è iniziato, né quando è finito… se mai è finito. So solo che quando i disegni e le parole non bastarono più cominciai a scrivere musica, a fare il “chitarraio”, come mi definiva un maestro del quale faccio finta di non ricordare il nome.
Suonavo, scrivevo, disegnavo, e intanto ascoltavo, leggevo, osservavo. Tutto quello che mi stava attorno era interessante e se non lo era facevo in modo che lo diventasse. Una cucina poteva essere la plancia di un’astronave, i rami di un albero una fortezza inespugnabile, un passero un amico… e un confidente. Dicono che la fantasia sia una forma di fuga dalla realtà, per me era qualcosa di più, era il mio mondo, la mia casa.
Ho pubblicato il mio primo libro a dieci anni. Una raccolta di racconti e poesie stampata in edizione limitata: tiratura ridotta a una sola copia, rilegata in cartone, nastro adesivo e carta da regalo, e battuta rigorosamente a macchina (allora l’editing si faceva con una gomma rotonda rossa e blu, che se non si stava attenti lasciava dei buchi nelle pagine e la penosa necessità di riscrivere tutto daccapo). Il titolo del libro era “Anni verdi” e raccoglieva il meglio della mia produzione giovanile (gli anni delle elementari, delle capriole e della prima bici senza rotelle), ma non stupitevi se non ne avete mai sentito parlare, vi ho detto che si trattava di un’edizione limitata!
Dopo quell’insperato traguardo per uno scrittore in erba seguirono i primi successi e i primi riscontri di pubblico. Nello stesso anno, infatti, partecipai al mio primo concorso di poesia con la lirica “Foglie”, che mi portò agli onori della cronaca con un trafiletto sulla pagina locale de “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il successo era dietro l’angolo, potevo sentirlo chiaramente… ma potevo sentire chiaramente anche le urla di mia madre quando cercai di mettere in moto la vecchia Fiat 500 per partire in cerca di fortuna. Ragazzino, è bene che te ne stia calmo per un po’ se non vuoi finire nei guai!
… e intanto continuavo a scrivere…
Confortato dal consenso riscontrato con la pubblicazione di “Anni verdi” (mia madre sorrise, la maestra mi disse bravo, una bambina mise due figurine nella mia cartella), decisi di percorrere la via del fumetto, giusto per non lasciare nulla di intentato.
Il primo albo raccoglieva storie brevi disegnate a matita, ma senza mai usare la gomma da cancellare (credo che la gomma della macchina da scrivere mi avesse traumatizzato). In questo caso il successo fu addirittura imbarazzante, tanto che perfino i miei parenti seppero che sapevo disegnare. “Bene… Bravo… Non smettere di disegnare!”
E io non smisi di disegnare…
…anche se intanto continuavo pure a scrivere…
Il secondo album a fumetti fu realizzato ancora a matita, ma il tratto era decisamente più maturo… dopotutto frequentavo con ottimi risultati la quarta elementare. Con questo lavoro inaugurai la “rilegatura a monte” che consisteva nel realizzare i fumetti su quaderni a quadretti già spillati e rilegati, una sorta di selfpublishing ante litteram.
I tempi erano maturi per lavorare a progetti più ambiziosi, così abbandonai definitivamente la matita in favore di una essenziale bic nera, e mi misi a disegnare storie più complesse la cui lunghezza era definita in partenza dal numero delle pagine dei quaderni che utilizzavo.
Cercavo un’ispirazione e il mio amico George Lucas venne a darmi una mano. Accadde al cinema, mentre guardavo “Guerre Stellari”, il quarto episodio della saga, sebbene all’epoca non riuscissi a capire quando avessero proiettato i precedenti tre episodi (credo che ancora oggi molti si pongano la stessa domanda.)
“Bene Gorge!” gli dissi al termine della proiezione tra un sacchetto di popcorn e una lattina di Coca-Cola, “se tu puoi avere la tua trilogia - perché all’epoca sembrava dovesse esserci solo una trilogia della saga dei cavalieri Jedi - allora anch’io ne avrò una!”
Tornato a casa iniziai subito a lavorare a “La saga della spada”, e George Lucas venne più volte a sbirciare tra le mie carte (credo che si sia ispirato a me per molti dei suoi personaggi… forse dovrei denunciarlo per plagio!)
Il primo episodio si intitolava “La spada di ghiaccio”, e gli appassionati delle storie “natalizie” di Topolino non potranno non notare alcune similitudini tra il mio fumetto e quello del topo saccente e della sua combriccola. Anche la Disney aveva iniziato a copiarmi.
Otto mesi. Tanto impiegai per completare la prima parte della trilogia, mentre mi ci vollero ben undici mesi per finire “La spada fatata” e dieci per l’episodio conclusivo dal titolo “Il sogno”. In tutto quasi due anni e mezzo di lavoro, una bazzecola in confronto a tutto il tempo impiegato da Lucas per mettere la parola fine alla sua saga spaziale. Datti una mossa George!
Ormai il mio talento era sotto gli occhi di tutti, ero il disegnatore-sceneggiatore più abile del condominio e le bambine scrivevano col gesso il mio nome sui muri…
E io intanto continuavo a scrivere…
Fu allora che la fama mi diede alla testa. Erano i mitici anni ‘80. Il mondo si divideva tra paninari, metallari e dark, e io mi ritrovai a parteggiare per questi ultimi, forse perché il nero dei vestiti si accordava meglio al tenore delle mie storie. La fama, dicevo della fama… i miei fumetti piacevano, di conseguenza anch’io piacevo (almeno così mi sembrava), e questo mi fece credere che sarei anche potuto diventare una specie di intellettuale, magari un saggista (così alla televisione chiamavano quelli che scrivevano cose “serie”). Così mi feci regalare una macchina da scrivere celeste e iniziai a scrivere la mia opera più ambiziosa, il “Teorema Ragionato”, una sorta di compendio di tutto lo scibile umano. Il progetto fallì miseramente a pagina 45, dopo qualche cenno di meteorologia e uno studio sul triangolo delle Bermuda.
Quel libro fu anche la mia prima opera incompiuta (la prima di una lunga serie) e coincise con il riconoscimento, inconfutabile, dei sintomi di una maledizione che mi aveva colpito mentre picchiettavo con le dita sui tasti della mia Olivetti Lettera 22. “La maledizione dell’incompiuto” si era rivelata e da quel giorno non mia avrebbe mai più abbandonato.
Colto da un tipo di sconforto che da allora si ripresenta alquanto di frequente mi abbandonai ai vizi, ciondolando tra sale giochi e lunapark, finché salvifica arrivò la possibilità di un riscatto e si presentò sotto forma di un registratore a cassette.
“Facciamo un radiodramma!” Dissi, sebbene al posto di radiodramma usai certamente un’altra parola. Racimolai un paio di attori tra i più capaci (il che significò coinvolgere mio fratello e un paio di vicini) e buttai giù la sceneggiatura di “Quella strana collezione”, un racconto vagamente ispirato ai film horror che a quei tempi trasmettevano le tv regionali un giorno sì e l’altro pure.
A produzione finita tutto il cast ricevette il plauso della critica, persino mia nonna espresse un giudizio positivo e fin da subito si iniziò a pensare a “Quella strana collezione 2”. Rambo era già a quota tre, quanto a Rocky, beh, lasciamo perdere…
E intanto continuavo a scrivere…
Sull’onda emotiva dei buoni risultati del radiodramma, scrissi alcuni racconti e un fantomatico “Dizionario dei misteri”. La bic era tornata a sostituire l’infausta macchina da scrivere e per un po’ le cose sembravano destinate ad andare al meglio. Bastava scrivere a penna e la maledizione dell’incompiuto non mi avrebbe più toccato.
Mi sbagliavo…
I primi sintomi di quell’insopportabile condanna si presentarono tra le pagine di “Caspar Mendoza”, un romanzo sull’emigrazione che non riuscii a terminare (forse perché mi stava antipatico il protagonista) e proseguirono poi con una serie di racconti “apocalittici” e un fumetto su un cowboy in trasferta a New York (chi ha detto: Mr. Crocodile Dundee?!)
Allora tutto ciò che scrivessi, e tutto ciò che disegnassi, era destinato a restare incompleto, mozzato, imperfetto. Per questo motivo iniziai a comporre canzoni, a suonare nelle cantine, e poi nei pub, dove nessuno ti pagava ma tutti potevano fischiarti.
Le medie erano alle spalle, gli anni del liceo erano iniziati…
… e io continuavo a scrivere…
“Ordine Costituito” era il nome del mio primo gruppo musicale, “Libertà Provvisoria” quello del secondo, ma anche dell’ultimo. In mezzo (tutta la mia vita sta nel mezzo, ricordate?) ci sono una dozzina di anni di cantine umide, sale prove infestate dai topi, concerti troppo (poco) affollati e una coppa di ferro troppo grande per le ambizioni di un pugno di ragazzini a cui piaceva suonare.
Quella coppa era il primo premio di un concorso regionale per gruppi emergenti, e allora noi pensammo di poter arrivare in alto, di poter arrivare ovunque…
Invece arrivammo a casa e il giorno dopo dimenticammo ogni proposito, e dimenticammo anche la musica, che forse aveva già detto tutto.
Da quel giorno Cleopatra, così si chiama la mia chitarra, arrugginisce in uno scantinato assieme a tutta l’attrezzatura, gli spartiti e una coppa di ferro enorme e un po’ troppo kitsch per servire da soprammobile.
Le storie, però, non smisero di affollare la mia testa, così radunai ancora una volta gli attori più promettenti della scena locale (a mio fratello e ai vicini si aggiunsero un paio di amiche e un manipolo di conoscenze “estive”), e gli sottoposi la sceneggiatura de “Il varco”, una storia di fantasmi, omicidi (tanti) e mani mozzate.
Iniziammo le riprese a giugno, le finimmo ad agosto… anche se in realtà non le finimmo mai veramente. La maledizione colpì nella fase del montaggio e del doppiaggio (tutta roba che sapevamo fin dall’inizio di non poter fare per una cronaca mancanza di mezzi.)
In compenso ridemmo parecchio… e ridiamo ancora, quando ci capita sottomano la videocassetta di quel film.
Gli anni ‘80 erano passati, i ‘90 avanzavano alquanto incolori e il tempo per le storie si faceva sempre più breve…
Nonostante tutto io continuavo a scrivere…
Dopo “Il varco”, incoraggiato dalle parole di Stephen King, che non smette mai di ispirarsi alle mie storie (un giorno faro i conti anche con te, Stevie!), mi imbarcai nel progetto di un secondo lungometraggio. Il titolo era “Morirò all’alba”, e in effetti il film smise di vivere all’alba del primo giorno di riprese. Riuscimmo a girare le scene introduttive e la colonna sonora, ma il rumore di sottofondo di una motozappa finì per rovinare tutto il resto… e bastò a cancellare le aspirazioni cinematografiche dell’intera troupe.
Quella volta ridemmo un po’ meno…
Ricominciarono i vizi e precipitai nel torbido giro delle discoteche, dei pub, e dei cineforum. I miei risparmi finivano presto (ma per fortuna ricominciavano ad ammonticchiarsi ogni sabato con la paghetta settimanale), e raggranellare i soldi per i fumetti e i libri divenne un’impresa difficile quasi quanto completare l’ultimo livello di “Ghost’n’Goblin” sul mitico Commodore 64. Mi serviva un lavoro.
Provai a farmi assumere come investigatore privato (se non fosse vero sembrerebbe meno stupido), ma il fatto che non fossi ancora maggiorenne mi tagliava fuori dai giochi… anche se avevo riprovato a mettere in moto la vecchia fiat ‘500. “Ragazzino, è bene che te ne stia calmo per un po’ se non vuoi finire nei guai!”
Così decisi che avrei fatto quello che sapevo fare e che avrei sfruttato le mie storie per trovare i soldi per comprare altre storie. Siccome, però, nessuno pagava per leggere i racconti surreali di un diciassettenne, mi dissi che era meglio ripiegare sui fumetti e sulla grafica, che tanto per quelli mica ti chiedono la carta d’identità!
A quasi dieci anni dalla mia prima incursione sulle cronache regionali, riuscii a far pubblicare alcune vignette sul solito quotidiano locale e un disegno “zombesco” sul settimanale “Splatter”. Ma i soldi veri, queste almeno erano le mie ingenue aspettative, sarebbero venuti più tardi, dal mio primo incarico “professionale”. Il lavoro, sulla carta, era pesantuccio, ma la prospettiva di graffitare un’intera discoteca all’aperto non mi spaventava, e non spaventava gli altri due amici che avrebbero condiviso con me l’impresa, e anche la paga… di qualunque entità fosse stata.
Lavorammo una settimana con le bombolette e con l’aerografo e alla fine, quando il proprietario ci disse che il lavoro non andava granché bene, lavorammo ancora, e ancora, e ancora. Quando tutte le bombolette furono esaurite, al pari delle nostre energie, la discoteca era finita, colorata, graffitata, e noi eravamo finalmente pronti ad essere pagati.
Ora, spartirsi una mezza dozzina di bombolette semivuote, un paio di pennelli, e degli inviti per la serata inaugurale del locale non era esattamente il tipo di retribuzione che ci saremmo aspettati, ma eravamo giovani e stupidi e accettammo quell’iniquo baratto con un sorriso beota sulle labbra.
All’inaugurazione della discoteca sfilammo boriosi davanti alle nostre “opere d’arte”, ci sentivamo artisti d’avanguardia a una personale oltremodo affollata, ma gli amici, i nostri amici, quelli che con i loro commenti ci avrebbero ripagato per tutta la fatica, non sarebbero arrivati che per il fine settimana. Soltanto un paio di giorni ci separavano dalla gloria… soltanto un paio di giorni…
Due giorni dopo un incendio distrusse la discoteca cancellando per sempre il nostro lavoro, i nostri graffiti e anche la nostra gloria. Ancora un trafiletto sul solito quotidiano locale… ancora gli effetti di quella maledizione…
Ciononostante continuavo a scrivere…
Quando scrivi molto con la penna dopo un po’ ti compare un calletto rossastro all’interno dell’ultima falange del dito medio. Io andavo fiero di quel calletto, e quando il rossore schiariva e il gonfiore diminuiva era ora di rimettersi a scrivere seriamente. Dopo l’incendio alla discoteca il mio callo era quasi scomparso, così decisi che era tempo di tornare a usare la mia fedele bic e di rimettermi a scrivere storie.
Scelsi un quaderno dalla copertina che mi ispirava (solitamente preferivo le scene bucoliche o quelle dal taglio “avventuroso”) e iniziai a scrivere “Le stagioni di P”, un romanzo di formazione che entra ed esce dal mio cassetto da troppi anni. La maledizione dell’incompiuto è un fardello pesante, ma con il tempo ho imparato a domarla, e oggi, quando cerca di colpirmi, lascio che si sfoghi e mi metto a lavorare su un altro progetto, e poi su un altro, e un altro ancora, finché me la lascio alle spalle e riesco a far perdere le tracce per un po’.
A volte è difficile passare da un mezzo racconto ai tre quarti di un romanzo, per poi tornare a una poesia e concludere un saggio, ma la tecnica del “saltimbanco” mi permette di concludere buona parte di quello che inizio, e anche se le cose migliori, forse, restano quelle incomplete, so che prima o poi scriverò la parola fine sulla mia storia perfetta…
È per questo che continuo a scrivere.
Scrivevo, perché non potevo farne a meno, ma non avevo scordato la mia passione per il disegno, quella pulsione innata che mi portava a cercare di dare uan forma alle idee. Così, congedato il Liceo Scientifico Enrico Fermi di Bari con un modesto risultato e un ginocchio fracassato in modo tutt'altro che modesto, tentai la sorte con la Facoltà di Architettura. All'epoca non pensavo che la mia maledizione potesse colpirmi anche tra i banchi e i tavoli di disegno del Politecnico di Bari, così macinai un esame dopo l'altro immaginando il mio futuro come Archistar in un periodo in cui questo termine non era neanche tanto abusato. Finì che mi lasciai nuovamente sedurre dalle sirene dell'editoria e ben presto mi ritrovai a fare l'editor per un editore di Genova. Iniziai anche a farmi pubblicare, roba vera, con tanto di codice ISBN, mica quaderni Pigna spillati o fogli Fabriano in unica copia. Ci sono ancora le tracce, perse nella rete come le molliche di Pollicino dopo una folata di vento troppo forte. "Benvenuti a Castleville", "Zanne di Lupo ali di Pipistrello" romanzi, racconti, poesie, qualunque cosa andava bene pur di mettere la mia firma sulla copertina di qualche libro, anche se non sempre riuscivi a trovarli sugli scaffali della Feltrinelli. Maledetti demoni della distribuzione! Scrivevo molto, troppo, e fu così che mi ritrovai a scrivere anche per la pubblicità, l'aria fritta come l'ho sempre chiamata, anche ora che è il mio lavoro. Venne fuori che ero bravo, che la creatività che serviva per inventare storie funzionava anche per vendere un paio di scarpe o un completo intimo. E poi sapevo anche disegnare, ero un illustratore, un grafico come ti etichettano quando varchi le porte dell'advertising, in pratica il profilo perfetto per lavorare nel fantomatico universo delle agenzie di comunicazione. Mi ritrovai a fare il direttore creativo, avevo un ufficio, una scrivania con una sedia grande e un pc un po' più piccolo. Scrivevo, disegnavo e mi pagavano pure.
Con il tempo imparai che potevo fare le stesse cose anche da solo, che potevo scegliere le "storie" da scrivere e le idee da illustrare, che potevo essere libero, che potevo essere me stesso. Nacque "Logoloco", la mia agenzia ri-creativa, una serranda che non smette di spalancarsi ogni giorno, nonostante le brutte giornate, gli anni bui e le tempeste improvvise. Dietro quella serranda continuo a costruire storie, storie perfette, con un inizio e una fine, ma le migliori, quelle scritte con l'anima e il sangue, restano sul fondo di un cassetto, in un qualche cartella del mio pc, e sono, inevitabilmente incompiute.
Una virgola invece di un punto, porte aperte, cancelli da varcare, storie da raccontare, ancora e fino alla fine.
Sono fatto così, non chiudo le porte, vado avanti per vedere cosa c'è dietro la prossima pagina. E vado di fretta. Il callo sul dito c'è sempre, anche se uso poco la penna, sono curioso, smemorato e nonostante tutto...
continuo a scrivere.