28.03.2019.

Autocoscienza

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Iniziò tutto con un prurito, un fastidioso prurito sulla schiena, all’altezza delle scapole. I primi tempi pensai alla solita allergia che mi prende in autunno, quando sostituisco le maglie di cotone con quelle di lana, poi la cosa si fece più insistente e allora compresi che l’allergia non c’entrava affatto.
Le prime penne spuntarono una mattina di ottobre, mentre ero ancora a letto a inseguire le ombre dei miei sogni. Erano penne nere.
Le sentii frusciare sotto la canottiera come fossero foglie secche, foglie secche eppure insolitamente vive. L’istinto mi spalancò la bocca spingendomi a gridare, e non fu facile evitare di precipitare giù dal letto come un sacco di patate. Per un istante camuffato da eternità, l’eco delle mie urla attraversò l’appartamento in cui vivevo, e finì per annidarsi da qualche parte sotto la mia pelle dilaniata da quelle nuove, spigolose presenze. Quando finalmente mi mancò il fiato nei polmoni, e quel che restava della mia razionalità venne a serrarmi le labbra, feci scivolare due dita lungo la schiena, piano, pianissimo, per evitare che l’incontro con quelle impreviste escrescenze fosse troppo traumatico. O troppo doloroso.
E alla fine le trovai, lisce e leggere, le mie penne, le mie prime penne da uomo uccello. Qualunque cosa questo potesse significare.
Corsi in bagno per guardarmi allo specchio, e con una certa sorpresa scoprii che il mio aspetto non era cambiato. Non del tutto, perlomeno. Ero ancora lo stesso uomo insignificante di sempre, un uomo allampanato e dalla carnagione fin troppo chiara anche per un anemico fotofobico. Ero ancora io, fatta eccezione per quei moncherini scuri che mi spuntavano da dietro le spalle. Moncherini scuri che non cessavano di vibrare.
Mi sfilai la canottiera facendo attenzione che il tessuto non sfiorasse la schiena, e tutto ciò che di nuovo vi era attecchito sopra durante la notte, quindi mi voltai di tre quarti e torsi un poco la testa, per vedere nuovamente la mia immagine riflessa. Sulla pelle diafana le penne spiccavano come due macchie d’inchiostro in mezzo a un foglio bianco, due macchie nere che gorgogliavano ad ogni involontaria contrazione dei miei muscoli.
Mi ci volle una manciata di minuti per scoprire che potevo controllare il movimento di quei piccoli affari scuri, una manciata di minuti per imparare a distendere e contrarre a piacimento le mie penne, con la stessa facilità con la quale si può allargare e incrociare le braccia. Il resto lo fece l’istinto.
La metamorfosi era iniziata, e nessuno allora sarebbe riuscito a convincermi che quello che stava accadendo era frutto di un’allergia. Anche se indossavo indumenti di lana.
Se mia moglie fosse stata ancora al mio fianco, quel giorno mi sarei ritrovato con la casa assediata dai poliziotti, e prima di riuscire a capire cosa stava accadendo sarei finito in una cella, o in un istituto d’igiene mentale. Ma lei non c’era, mia moglie non è più con me da quando ha deciso che la sua vita sarebbe stata migliore in compagnia di un giovane chirurgo in carriera.
Se solo potesse vedermi adesso!
Metabolizzata la paura e superato lo sbigottimento iniziale, rimasi immobile davanti allo specchio, rapito dalla visione mostruosa eppure affascinante di quelle lucide penne di corvo. E ripensai alla mia vita, alla donna che avevo sposato, alle persone che avevo conosciuto, e all’improvviso tutto mi fu chiaro, tutto cominciò ad avere un senso. Perfino quelle ali spuntate sulla mia schiena, ali che prima di sera si erano completamente sviluppate. La metamorfosi si era compiuta, e con essa, forse, anche la parte più assurda del mio destino.
Di fronte allo specchio, ieratica e solenne incarnazione di un mito immortale, dischiusi le ali tendendo ogni muscolo, e ogni penna, e abbracciai l’idea che la mia rinascita celasse un significato preciso. E una missione da compiere.
Per qualche strano motivo mi convinsi di essere un eletto, una sorta di angelo della provvidenza nato per portare ordine nel caos. Per qualche strano motivo mi convinsi di essere l’incarnazione del bene.
Poi cominciò a spuntarmi la coda.
 
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